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Intervento al congresso provinciale ARCI
Ferrara - gennaio 2006



Vi ringrazio per avermi invitato ad intervenire a questo congresso provinciale in rappresentanza del coordinamento dei ricercatori precari dell’universita’ di Ferrara, coordinamento che si e’ costituito nell’autunno del 2004 per promuovere la tutela del lavoro dei ricercatori precari nell’ateneo ferrarese. E’ stato per noi un anno molto duro, un anno molto diverso da quelli che eravamo abituati a trascorrere piu’ o meno chiusi nei nostri laboratori a fare ricerca e nelle aule universitarie a fare lezione. (Non e’ una cosa di cui io sia particolarmente orgogliosa, perche’ sarebbe stato molto meglio, almeno per quello che mi riguarda, sollevare gli occhi dal microscopio alcuni anni fa e osservare bene quello che stava succedendoci intorno). E’ stata la signora Moratti a stanarci dai nostri laboratori, costringendo ciascuno di noi ad assumerci la responsabilita’ di studiare la sua proposta di legge, capirne tutte le conseguenze ed opporci con ogni mezzo alla sua attuazione. Non e’ stato facile. Ha comportato leggere tutti testi man mano che venivano modificati dalle commissioni parlamentari, e leggere tutte le trascrizioni delle discussioni parlamentari, che ci davano sempre piu’ l’impressione che si stesse riformando qualcosa senza conoscerlo. La conferma l’abbiamo avuta quando ci siamo rivolti al Ministero per chiedere quale dipartimento potesse darci un quadro della situazione attuale e, quindi, il numero più o meno esatto dei ricercatori precari che lavorano nelle università e nei centri di ricerca italiani. La risposta ci ha atterrito: ci è stato risposto che non esisteva nessuno all’interno del Ministero che si occupasse dei ricercatori precari, concetto, tra l’altro, risultato piuttosto oscuro al nostro stupito interlocutore.

Il Ministro stava riformando l’Università senza conoscerla, oltre che a costo zero, precarizzando ulteriormente il personale per la ricerca, che gia’ oggi costituisce il 50 % del personale totale. In un paese, il nostro, dove la ricerca viene fatta SOLO all’universita’ e in quegli enti pubblici come il CNR o l’INFM che il saggio ministro gia’ aveva provveduto a danneggiare gravemente nel primo caso, a cancellare nel secondo. Indebolire la capacita’ di ricerca dell’universita’ e’ molto semplie: si puo’ privarla delle risorse umane che la ricerca la sanno fare; oppure si puo’ privarla dei fondi necessari a farla. La coppia Moratti tremonti ha superato ogni aspettativa e ha fatto entrambe le cose. Abbiamo una universita’ costituita da 60.000 dipendenti a tempo indeterminato (ricercatori e professori) e da altrettanti dipendenti a tempo determinato, I cosiddetti ricercatori precari. Che sono poi coloro che la ricerca la fanno, seguendone I tempi anche quando I tempi prevedono che si lavori il Sabato, la Domenica e quando serve anche la notte. Della ricerca si ha spesso una immagine impalpabile, anzi si tende a pensare dall’esterno che i ricercatori siano dei privilegiati. Sara’ per questo che la Moratti, quando, nei suoi proclami televisivi, affermava di voler abolire i privilegi, nella realta’ stava semplicemente abolendo noi. In realta’ questi 60.000 privilegiati hanno sempre e solo lavorato con contratti atipici, hanno versato saltuarimente, quando il contratto lo prevedeva, i contributi alla gestione separata INPS, hanno quasi tutti sopportato, nel corso della loro carriera, periodi di lavoro che vanno da un mese a un anno senza stipendio, senza contratto e senza copertura assicurativa, hanno contribuito a costruire le carriere dei professori con i risultat delle loro ricerche, e adesso si trovano nella condizione di non avere nessuna reale prospettiva di un lavoro stabile.
E questo pesa, pesa moltissimo per la loro vita lavorativa: il ricercatore, per il lavoro che fa, ha bisogno si stabilità, ha bisogno di tempo, ha bisogno di appartenere stabilmente al gruppo di ricerca e alle istituzioni in cui lavora, perché questa è la condizione essenziale per una produzione di qualità e continuativa nel tempo. E pesa per la loro vita privata, perche’ li costringe a scelte difficili, che rimettono continuamente in discussione gli spazi che una coppia o una famiglia ha diritto di considerare acquisiti e non continuamente minacciati dallo spettro dell’emigrazione. La chiamano esperienza all’estero e ogni ricercatore che voglia esser tale, almeno in campo medico-biologico, la fa e la fa volentieri. La seconda volta la chiamano collaborazione scientifica e siccome tu nel tuo progetto di ricerca ci credi, all’estero ci torni volentieri e ci passi un altro anno o due e nel frattempo diventi un ricercatore maturo, pronto per riportare a casa le tue competenze e farle frutttare. Se all’estero ti ci avesse mandato una azienda al tuo ritorno ti incatenerebbe li’, magari ad insegnare ad altri cio’ che solo tu sai fare. L’universita’ no. Lo stato ti propone la mobilita’ e ti dice che siccome sei giovane tu puoi forse essere disposto a recarti dall’altra parte del mondo a costruire nuove opportunita’. Quando gli fai notare che poi cosi’ tanto giovane tu piu’ non sei e avresti nel frattempo anche messo su magari una famiglia o almeno ci stai provando e che il tuo problema principale adesso e’ come ottenere un mutuo, finge di non capire. E ti spiega che l’universita’ non deve piu essere necessariamente il luogo dove la conoscenza si crea, si matura e si trasmette in modo che altri uomini e donne possano arricchirsi e a loro volta comunicarla, e magari in questo modo contribuire alla costruzione di una societa’ un po’ diversa dall’attuale. Ti spiega invece che adesso fai parte dell’industria dell’education e che questa industria vende prodotti a dei clienti, modificandoli in funzione delle direttive del governo di turno e delle sue improvvisazioni. Il che non e’ facilmente conciliabile con il principio della liberta’ di insegnamento e di ricerca e con la necessita’ di sviluppare anche le discipline meno appetibili per il mercato. Il sapere e la conoscenza, dovrebbero essere almeno quelli, qualcosa di piu’ di un semplice “prodotto” e avere a che fare con lo sviluppo della societa’ oltre che del mercato.

L’universita’ non riesce ad assumere nuovi ricercatori perche’ da un lato lo stato le sta prosciugando le risorse, dall’altro oltre 20.000 professori che hanno gia’ superato abbondantemente l’eta’ pensionabile in pensione non ci vanno. Restano li’, inamovibili, anche perche’ la signora Moratti ha concesso 5 anni in piu’ a tutti i professori clinici, in modo che possano andare in pensione a 72 anni anziche’ ai gia’ piuttosto anomali 67. L’universita’ ha regole precise stabilite dallo stato, in base alle quali non si puo’ assumere nuovo personale a meno che non vada in pensione qualcuno gia’ strutturato. E queste regole precise stabiliscono che da ogni professore ordinario che va in pensione si possano assumere 2 ricercatori. Questo significa che 40.000 ricercatori precari potrebbero essere assunti domani se I singoli professori che hanno maturato l’eta’ pensionabile e che vedrebbero comunque garantito il loro reddito dalla pensione, semplicemente, lasciassero il loro posto di lavoro alla generazione sucessiva. All’universita’ di Ferrara ci sono oltre 50 professori che hanno superato I 67 anni di eta’ di cui 12 fuori ruolo, cioe’ che percepiscono lo stipendio pieno senza avere obbligo di didattica ne’ di ricerca. Questo significa la possibilita’ di assunzione di 100 ricercatori tra quei 400 precari che lavorano all’universita’ di Ferrara. Il rischio che la precarieta’ sia ormai considerata un male accettabile del nostro tempo e’ elevato e va combattuto perche’ la precarieta’ e’ invece una anomalia, facilitata dalla legge 30 e dal blocco delle assunzioni degli ultimi anni. Il ministro Moratti afferma che essere precario e’ cosa buona e giusta e che l’Europa e gli Stati Uniti sono pieni di ricercatori precari. Forse hanno mancato di riferirle che una recente indagine europea ha evidenziato come la condizione di precarieta’ danneggi la qualita’ della ricerca. Forse hanno mancato di riferirle che esiste uan carta europea del ricercatore, che si spera venga tradotta in provvedimenti concreti in termini di tutela del lavoro almeno per iniziativa dei singoli rettori che quella carta l’hanno sottoscritta lo scorso luglio. L’autonomia lo permetterebbe. Forse hanno mancato di riferirle che che lo stipendio di un ricercatore con 8 anni di esperienza negli stati uniti si aggira intorno agli 80.000 dollari. Lo sipendio di un ricercatore con pari esperienza in Italia e’ meno di un quarto, nonostante i livelli qualitativi della produzione scientifica italiana siano tra i primi posti rispetto agli altri paesi europei. La precarieta’ negli altri paesi si paga e bene, qui chi paga sono solo le nostre vite. Del resto, In un recente incontro svoltosi a siena ed organizzato dalla crui, un esponente di confindustria, spero parlando a titolo personale, ha affermato che e’ sbagliato, per I ricercatori italiani, riferirsi ai colleghi europei e statunitensi in materia di retribuzione. E che sarebbe invece corretto avere come riferimento I colleghi cinesi ed indiani. Non credo occorra un commento a questa affermazione, piuttosto sintomatica pero’, del pensare il ricercatore come merce, piu’ che come risorsa.

Il sistema scolastico, dell’educazione inferiore e superiore e della ricerca, e’ un settore strategico per la vita di una nazione e lo sviluppo della sua societa’: non per niente il governo berlusconi ha perseguito con sistematica determinazione l’indebolimento dell’intero sistema, minandone tanto la struttura quanto il fondamento pubblico. Ricordiamo che in una qualunque universita’, grazie alla nuova legge, una qualunque industria, purche’ decida di investire delle risorse , puo’ comprare un posto da professore ordinario, senza che il soggetto in questione debba sostenere alcun concorso, e controllarne quindi il filone di ricerca, che non coinvolge solo il professore in questione, ma I suoi dottorandi, I suoi ricercatori e le strutture di quella universita’. Non accade in nessun altro paese europeo, non accade nemmeno negli Stati Uniti. In Italia, d’ora in poi sara’ possible. A meno che il prossimo governo, se ci sara’, non metta la stessa determinazione e la stessa ferrea volonta’ nel ripristinare e salvaguardare I settori strategici di questo paese, primi fra tutti quelli dell’istruzione e della ricerca.

 
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